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lunedì 19 agosto 2019

Psychè: Hikikomori: la sindrome dei ragazzi reclusi

Psychè: Hikikomori: la sindrome dei ragazzi reclusi: Hikikomori ė la sindrome dei ragazzi che si chiudono in camera rifiutando ogni aiuto. Molto diffusa in Giappone, colpisce tanti adol...

Hikikomori: la sindrome dei ragazzi reclusi



Hikikomori ė la sindrome dei ragazzi che si chiudono in camera rifiutando ogni aiuto. Molto diffusa in Giappone, colpisce tanti adolescenti anche in Italia, in continuo aumento nell'ultimo decennio. La parola giapponese significa "stare in disparte, isolarsi" e si riferisce al ritiro sociale degli adolescenti. Questi ragazzi "ritirati" in un certo senso sottraggono il proprio corpo alle relazioni sociali: non vanno più a scuola, non frequentano amici dal vivo e si chiudono sempre di più nella loro stanza, evitando nel tempo anche i rapporti con la famiglia e i genitori. Il loro ritmo di vita spesso è invertito, di giorno dormono e di notte sono svegli nella loro stanza impegnati in attività soprattutto per mezzo della rete. Potremmo definirla una forma di socializzazione virtuale, per cui il termine ritiro sociale non sembra del tutto corretto in quanto la relazione fisica e diretta col mondo viene completamente inibita mentre si sviluppa una relazione virtuale e mediata. Il fenomeno è complesso e difficile da interpretare, può essere messo in relazione con i cambiamenti della nostra società, tra questi il rapporto con il corpo e la propria immagine corporea. Oggigiorno il corpo infatti viene mostrato, anzi sovraesposto. Se consideriamo il caso in cui ci si sente inadeguati a questa richiesta, in una fase evolutiva come l'adolescenza in cui l'esposizione del proprio corpo ha tutta una serie di significati possiamo arrivare a delle gravi conseguenze come quella dell'hikikomori, dove gli adolescenti non esibiscono più il loro corpo e si chiudono in una dimensione acorporea e virtuale. Un aspetto che emerge dalle ricerche è che le nuove tecnologie non risultano la causa di questo fenomeno ma la conseguenza. La rete sembra rappresentare la fuga e la difesa per questi adolescenti, un sintomo sostitutivo che potrebbe paradossalmente proteggerli da depressione, idee suicidarie ed esordi psicotici. Rispetto a un possibile intervento strappare questi giovani dalla rete in modo violento non risulta essere efficace, come confermato da tristi epiloghi riportati dalla cronaca. Una strategia di intervento può essere la riformulazione della relazione genitori-figli, partendo anche da un nuovo rapporto dei genitori con la rete. Può essere utile capire che tipo di relazione hanno i figli con la rete, per cosa la utilizzano, che funzione rappresenta per loro, che identità riescono ad assolvere con la rete. Sperimentare un dialogo sulla rete permette di aprire un canale comunicativo con i propri figli, entrare in relazione con loro attraverso la rete e trovare una via d'accesso ad una barriera altrimenti inaccessibile. Per questo motivo è fondamentale la prevenzione ed intervenire quando si manifestano i primi campanelli d'allarme. In questa fase i genitori devono cercare di aumentare i momenti di comunicazione con il figlio.
Qualora si percepisca un peggioramento dei comportamenti di evitamento, è importante che i familiari cerchino immediatamente il supporto di un professionista, senza aspettare che l'isolamento si concretizzi, perchè più lo stadio è avanzato più è difficile riuscire a riportare il giovane alla vita sociale, che spesso richiede un intervento lungo e articolato.


A cura del dott. Andrea Morbidoni 















sabato 2 dicembre 2017

Migliorare la concentrazione è possibile?



Per studiare in modo efficace e produttivo un aspetto fondamentale è la capacità di concentrarsi e sostenere le proprie energie intellettive verso il compito da apprendere. 

Di seguito alcuni suggerimenti per aumentare la capacità di concentrazione e mantenere alto il focus attentivo.


1) Sistema l'ambiente in cui andrai a studiare.


Esiste un collegamento tra l’ordine del proprio spazio e l’ordine mentale.

Un ambiente disordinato e caotico può ristringere la tua capacità di focalizzarti e di processare informazioni.

Per questa ragione tieni sulla scrivania solo ciò che potrebbe esserti utile in quel momento ed elimina il superfluo.

Meno disordine = meno distrazioni.



2) Evita distrazioni sensoriali. 

Cerca di eliminare o ridurre al minimo gli stimoli sensoriali distraenti.
Fai pulizia acustica, spegnendo tutte le fonti di rumore (telefoni cellulari, radio, televisione ecc.)


3) Limita le distrazioni mentali.


Una delle sorgenti di distrazione più frequente sono i nostri stessi pensieri. Invece di immergerti pienamente nel compito la tua mente inizia a divagare su cose che in quel momento non sono pertinenti rispetto a quello che devi fare (chiamare un amico o pensare alla prossima uscita).

Una volta notato il pensiero distraente riporta l’attenzione sul compito. Con la pratica diventerai in grado di passare sempre più tempo dedicandoti alla tua attività. 


4) Gestione del tempo e pause.


Il nostro livello attentivo non è costante nel tempo ma presenta momenti di alta concentrazione (arousal) per poi iniziare a decrescere. Pertanto concentrati per 25 minuti sul tuo compito e al termine dei quali fai 5 minuti di pausa. Puoi usare anche una sveglia che ti segnala che è il momento dei meritati 5 minuti di pausa. Questo ti permetterà di studiare con il massimo livello di arousal.


5) Focalizzati su un solo compito alla volta.


Tieni il compito successivo lontano dai tuoi pensieri e dagli occhi, in modo che non ti distragga da ciò che stai facendo ora. L’obiettivo è di rendere il compito in corso di svolgimento l’unico sul quale focalizzarti. 


“La concentrazione è il segreto della forza in politica, in guerra, nel commercio, in breve, in tutta la gestione degli affari umani.” (Ralph Waldo Emerson)


A cura del dott. Andrea Morbidoni





martedì 3 gennaio 2017

Appartenenza e Separazione


L'appartenenza e la separazione sono le due coordinate su cui si muove la crescita di un individuo, attraverso cui ognuno realizza la propria individuazione, differenziandosi da quella che Bowen chiama “massa indifferenziata dell’Io familiare”.  
Come espresso dalla sua etimologia l’appartenenza (la parola appartenere deriva dal latino ad  pertinere cioè riguardare) ha a che fare con la nostra identità e i rapporti che abbiamo con gli altri contribuiscono a definirci: quando dico “mia sorella” o “il mio amico”, non  è come quando si dice “la mia penna" in quanto la parola appartenenza applicata ai rapporti interpersonali non ha il senso di “possesso” ma la parola “Mio” indica una relazione, significa “a me”, “per me”, costei “mi” è sorella, lui “per me” è un amico.
Per quanto riguarda parola separazione deriva dal latino separare composto da se che indica privazione e parare preparare. Già dalle origini della parola  si denota che per separarsi è necessario prepararsi a privarsi di qualcosa e la privazione implica che  ci debba essere stato prima un qualcosa.
 Whitaker sottolinea come sia necessario essersi appartenuti per potersi separare; la separazione e l’appartenenza sono due aspetti concatenati del processo di individuazione: “quanto più l’individuo si è differenziato dalla propria famiglia di origine, tanto migliori saranno le premesse per una buona individuazione”.
Il soggetto diviene tale in quanto vive e matura la sua persona attraverso il sentimento di appartenenza alla sua famiglia, alla sua storia e alla sua cultura.
Il ciclo vitale della famiglia modella le nostre esperienze con le sue tappe, scandite dalle riunioni e separazioni, dalle nascite, dalle morti, dalle vicende che caratterizzano la storia della famiglia.
L’intero ciclo vitale è interpretato da Whitaker come la continua ricerca, talora drammatica, di un equilibrio tra le due tendenze contrapposte ma necessarie.
Da una parte vi è  la necessità di mantenere l’identità personale nell’identità della coppia e della famiglia di appartenenza, attraverso la stabilità, dall’altra parte la necessità di cambiare in rapporto alla crescita, alla maturazione, al bisogno di individuarsi e di liberarsi.
Per poter essere libero l'uomo deve avere il coraggio di rompere le catene di un ruolo imposto da altri, conoscendosi e correndo il rischio di non essere più riconosciuto dagli altriPer non rimanere ancorati ad una identità non autentica dobbiamo muoverci alla ricerca della propria individuazione, accettando di percorrere le tappe  di questo processo, muovendosi anche nel buio, nell’incertezza, nella paura, nella confusione delle idee e dei sentimenti. Vicinanza e distanza, riunione e separazione, esserci e non esserci, entrare ed uscire, dentro e fuori, associare e dissociare sono il modello basico della crescita dell’individuo. Il punto focale è lo sviluppo attraverso il tema  dell’intimità e del ritegno, dell’unione e della separatezza, sino all’esperienza adulta di questi poli relazionali nella quale l’individuo, definita la sua identità, è capace di essere unito a qualcun altro tanto quanto è capace di esserne separato e viceversa.
Permettere la crescita significa passare dalla rigida infantile relazione di dipendenza simbiotica alla relazione adulta, duttile e realistica, raggiunta attraverso una sana ribellione che conduce all’autonomia, quindi alla libertà. L’impulso vitale, dell’uomo e delle famiglie, è quello di crescere accrescendo le proprie capacità di integrazione,  senza rimanere intrappolati da un sistema chiuso da regole rigide. Integrare e integrarsi è un processo che mantiene il suo ritmo di sviluppo a condizione che sia mantenuta e salvaguardata l’integrità stessa del soggetto e questa si può cogliere nell’agire, nella capacità e nella libertà di muoversi, di avvicinarsi o di allontanarsi dall’oggetto del suo amore o del suo odio. Per Whitaker l’uomo è costitutivamente integro cioè intero, non spezzato interiormente né corrotto o vincolato dalla presenza di elementi estranei, se è capace di integrare, integrarsi, di sviluppare, quindi di crescere, scegliere e muoversi liberamente. Il processo di separazione-individuazione dalla famiglia di origine”   rappresenta lo sviluppo di tutti quei fattori che portano al costituirsi dell’identità personale quale totalità, unitaria e permanente da un lato, articolata e in divenire dall’altro. Il vincolo familiare è   un legame, relazione o rapporto che lega (ma non  “incatena”) reciprocamente due o più  persone. Perché un vincolo  sia vissuto come “legame”, e non come “catena”, come sostengono Bateson, Jackson e Haley, un sistema dovrebbe  mantenere, nel suo evolvere, un’integrità che permetta ai suoi membri di poter sviluppare la propria individualità. Ciò è possibile solo se una famiglia si è costituita su solide basi e se ha in sé l'elasticità sufficiente a trasformarsi in coincidenza con gli eventi critici che scandiscono la sua esistenza, così da essere  in grado di autoregolarsi e di seguire un processo di sviluppo che porta alla differenziazione.  Come afferma Whitaker  “bisogna aspettare con riverenza quel momento in cui si manifesta nei ragazzi la prima decisione autonoma ed è quello il momento in cui si manifesta l’uomo e tuo figlio diventa il tuo compagno”.

a cura del Dott. Andrea Morbidoni 

domenica 30 gennaio 2011

Le 7 forme dell'amore


Sternberg , professore di Psicologia a Jale, ha teorizzato un concetto di amore completo , sulla base di tre componenti fondamentali:
1)     l’impegno (o dedizione)   componente cognitiva,
2)      l’intimità la componente emotiva,
3)     e la passione la componente motivazionale-eccitatoria dell’amore.
Si può immaginare l’amore come un triangolo in cui maggiori sono impegno-intimità-passione,  più grande è il triangolo e più intenso è l’amore.



Dalla combinazione dei tre diversi fattori scaturiscono sette possibili forme di amore.
  • La prima è la "la simpatia" dove c’è solo l’intimità e ci si riferisce ai sentimenti che si provano in un'autentica amicizia  contraddistinta da  vicinanza e  calore umano.  
  • Il secondo tipo è " l'infatuazione" quando c’è solo la passione ed è connotato da  una intensa eccitazione fisiologica. E' quell’amore a prima vista che può nascere all’istante e svanire con la stessa rapidità.  La passione è rapida a svilupparsi e rapida a spegnersi, brucia alla svelta e dopo un po’  ci si abitua ed arriva l’assuefazione.
  • "L’amore vuoto" in cui l’impegno è privo di intimità e di passione e tutto quello che rimane è l’impegno a restare insieme. Può essere  un rapporto stagnante che si osserva talvolta in coppie sposate da molti anni: un tempo c’era l’intimità, ma ormai i due partner non si parlano più; c’era la passione, ma anche quella si è spenta.
  • "L’amore romantico" è una combinazione di intimità e di passione (tipo Giulietta e Romeo). Più di una infatuazione perchè vi è vicinanza e simpatia, con l’aggiunta dell’attrazione fisica e dell’eccitazione, ma senza impegno, come un’avventura estiva che si sa che finirà.
  • "Amore fatuo" comporta la passione e l’impegno, ma senza intimità . E’ l’amore da fotoromanzo. I due si incontrano, dopo una settimana sono fidanzati e dopo un mese si sposano, s’impegnano reciprocamente in base all’attrazione fisica, ma dato che l’intimità ha bisogno di tempo per svilupparsi, manca il nucleo emotivo su cui può reggersi l’impegno. Questo tipo d’amore  di solito non dà buon esito nel lungo periodo.
  • "Sodalizio d’amore" è chiamato un rapporto d’intimità e impegno reciproco, ma senza passione . E’ come un’amicizia destinata a durare nel tempo, quel tipo di amore che spesso si osserva nei matrimoni dove l’attrazione fisica è scomparsa.
  • Infine quando tutti e tre gli elementi si combinano in una relazione, abbiamo quello che Sternberg chiama "amore completo".                                          Raggiungere un amore di questo tipo, afferma l’autore, è come cercare di perdere  peso, difficile ma non impossibile; la cosa davvero ardua è mantenere il peso forma una volta che ci si è arrivati o tenere in vita un amore completo quando lo si è raggiunto: è un compito aperto, non una tappa raggiunta una volta per tutte.
In questa visione, l’indice più valido per predire la felicità di una relazione è dato dalla consonanza tra triangolo ideale passivo (i sentimenti che si desiderano dall’altro) e il triangolo percepito (i sentimenti che si presuppongono dall’altro). La relazione tende a finire se non c’è corrispondenza tra quello che si vuole dall’altro e quello che si pensa di riceverne. Si potrebbe consigliare di ridurre le proprie aspettative e diminuire il proprio coinvolgimento ma è un consiglio difficile da seguire. In USA metà dei matrimoni finiscono in divorzio e anche chi non divorzia non è detto che viva in una coppia felice. La gente è davvero così stupida da fare sempre la scelta sbagliata? Probabilmente no.                                           
Spesso sceglie in base a quello che conta di più nell’immediato, ma nel lungo periodo i fattori che contano cambiano, cambiano le persone e cambiano le relazioni.
  
Nella ricerca tra i fattori che tendono a diventare più importanti con l’andare del tempo, si sono rilevati:
  • la disponibilità a cambiare in funzione delle esigenze dell’altro
  • la disponibilità ad accettare le sue imperfezioni
  • la comunanza di valori
Questi sono elementi che è difficile valutare all’inizio di una relazione e l’idea che l’amore vinca tutti gli ostacoli è molto romantica, ma poco reale. Quando si devono prendere delle decisioni, quando arrivano i figli e si devono fare alcune scelte, anche ciò che sembrava poco importante, lo diventa. Altri fattori invece nel lungo periodo diventano secondari: come l’idea che l’altro sia "interessante" (all’inizio c’è il timore che se cala l’interesse la relazione svanisce). In realtà quasi tutto tende a diminuire col tempo la capacità di comunicare, l’attrazione fisica, il piacere di stare insieme, gli interessi in comune, la capacità di ascoltare, il rispetto reciproco, il trasporto romantico.
 E’ importante fin dall’inizio sapere che cosa aspettarsi col tempo, avere aspettative realistiche circa quello che si potrà ottenere e quello che finirà con l’essere più importante a lungo andare.

Cosa fare per migliorare un rapporto di coppia?
Sternberg propone un ultimo triangolo: quello dell’azione. Spesso c’è un bel salto fra pensiero, sentimento ed azione. Le nostre azioni non sempre rispecchiano i nostri sentimenti, per cui può essere utile sapere quali atti sono associati alle varie componenti dell’amore. 
La passione richiede il contatto fisico, la sessualità, la varietà dei comportamenti sessuali. L’intimità richiede la comunicazione dei propri sentimenti interiori, l’offerta del sostegno emotivo, la condivisione del proprio tempo e delle proprie cose. L’impegno , infine, comporta il fidanzamento, il matrimonio, la fedeltà, la capacità di superare i momenti difficili, la capacità di trovare un valido compromesso nelle diverse  esigenze ed aspirazioni. 







E’ importante esprimere l’amore nei comportamenti perché il modo in cui ci comportiamo plasma i nostri modi di pensare e di sentire, non meno di quanto ciò che pensiamo e proviamo plasma le nostre azioni (se non agisci come pensi, finirai per pensare come agisci). Inoltre certe azioni portano ad altre azioni: le espressioni d’amore dell’uno influiscono sui pensieri, sui sentimenti e sui comportamenti dell’altro nei suoi confronti, dando luogo ad una serie di azioni che si rinforzano a vicenda. E’ necessario pertanto dare importanza alle espressioni d’amore, senza le quali anche il più grande amore può morire.


a cura del Dott. Andrea Morbidoni

lunedì 27 dicembre 2010

Burnout

Il costrutto del job burnout ha avuto origine dalla percezione di un diffuso malessere da parte di alcune categorie di professionisti[1], che portarono all’attenzione degli studiosi la loro esperienza di disagio lavorativo.
Stiamo assistendo a molteplici cambiamenti nell’organizzazione e negli impegni lavorativi connessi alla globalizzazione dell’economia, ai rapidi riassetti dei mercati internazionali, alla continua trasformazione delle strutture organizzative.
 Il mondo del lavoro sta cambiando: aumenta il numero di contratti precari, si modificano le possibilità di carriera, gli investimenti personali nel lavoro, in generale aumenta l’incertezza.
I lavoratori si sentono vittime del disagio lavorativo, e sono meno in grado di riconoscere nel lavoro una possibilità di auto-realizzazione e una fonte di gratificazione.
In questo scenario il job burnout,  è un fenomeno in continuo aumento in molte nazioni occidentali.
Letteralmente burnout significa “bruciato”,”scoppiato” ed è un fenomeno complesso che colpisce soprattutto chi svolge una professione d’aiuto.
Secondo i principali studiosi che lo hanno descritto [2] è il risultato di uno squilibrio prolungato tra investimenti e risultati, tra richieste e risorse ed è legato a “costi elevati” implicati nel lavorare in certe condizioni e a contatto con determinate categorie d’utenti .
 “People give too much and receive too little in return” (le persone danno molto e ricevono troppo poco in cambio).
Infatti gli operatori possono trovarsi nella situazione di dover rispondere a domande non sempre soddisfacibili, sia per la limitatezza o inadeguatezza delle risorse del servizio, sia perché le richieste sono improprie (non formulate correttamente, ambigue).
Dopo un certo periodo di tempo presentano un calo professionale e psicologico, che porta all’insorgere di situazioni conflittuali nei confronti degli utenti
o ad un deterioramento nei rapporti interpersonali.
I primi sintomi di questo malessere sono il distacco emotivo e l’insofferenza verso l’utenza, che rappresentano il rovesciamento della funzione stessa dell’attività lavorativa (di cura del malato).
Il burnout è un processo che si auto-rinforza, poiché distacco, pessimismo e ostilità possono condurre al fallimento della relazione di aiuto, in un processo a spirale che porta alla scomparsa di fiducia nelle possibilità di elaborare una risposta adeguata (Del Rio, 1990).
Tali operatori vivevano all’interno della loro organizzazione specifiche difficoltà che si presentavano, in particolare, in contesti sociali e sanitari dove l’obiettivo dell’attività riguardava l’aiuto, la cura e la riabilitazione dell’utenza.
Le prime ricerche vengono svolte da Freudenberger (1974), che è stato il primo ad individuare in ambito accademico tale fenomeno, ma la prima sistematizzazione del costrutto avviene ad opera di Christina Maslach[3], per la quale il job burnout rappresenta una specifica sindrome da stress cronico caratterizzata da tre dimensioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e e ridotta efficacia personale.
L’ esaurimento emotivo (emotional exhaustion) consiste nella sensazione di aver “bruciato” tutte le energie psicologiche, il sentirsi svuotato e senza più risorse fisiche ed emozionali per affrontare il lavoro.
E’ la dimensione maggiormente legata allo stress e al benessere fisico, oltre che psicologico.
La depersonalizzazione (depersonalisation) rappresenta la componente interpersonale del burnout ed è caratterizzata da un esasperato distacco nella relazione con gli utenti/clienti che si esprime nel trattare gli altri come oggetti o numeri piuttosto che come persone (Kahill 1988, Maslach, 1982).
Si manifesta attraverso un atteggiamento freddo e cinico, di indifferenza e annullamento delle emozioni.
Il ridotto senso di riuscita professionale o ridotta efficacia personale (reduced professional efficacy) è la componente di valutazione  di sé del job burnout, caratterizzata da un crescente senso di inadeguatezza, dalla mancanza di fiducia circa le proprie possibilità di riuscita nell’attività professionale.
 Il job burnout è costituito da un graduale processo di perdita durante il quale la discrepanza tra i bisogni della persona e le richieste del lavoro continua a crescere. Maslach e Leiter[4] hanno individuato delle componenti di base che sembrano accomunare coloro che ne sono colpiti e sono il deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro, il deterioramento delle emozioni e  problemi di adattamento tra la persona e il lavoro.
 Per quanto riguarda la prima componente, ovvero il deterioramento dell’impegno, accade che quello che era iniziato come un lavoro importante, significativo e affascinante, diviene insoddisfacente, sgradevole e insignificante. Quando la sindrome del job burnout inizia a manifestarsi, l’impegno nei confronti del lavoro comincia a diminuire, mutando i sentimenti di energia, coinvolgimento ed efficienza in esaurimento, cinismo, inefficienza (Maslach e Leiter, 2003).
Per quanto riguarda il deterioramento delle emozioni, accade quando sentimenti positivi quali l’entusiasmo, la dedizione, la sicurezza e il piacere vengono sostituiti dalla rabbia, ansia e depressione. La rabbia e la frustrazione sono il marchio caratteristico del job burnout a livello emozionale. La rabbia che accompagna la frustrazione alimenta le reazioni negative verso gli altri e il cinismo riguardo al lavoro, e a causa di ciò si verifica una tendenza a cercare capri espiatori e ad incolpare gli altri per i propri problemi, reagendo nei loro confronti in modo aggressivo e punitivo.
Paura e ansia sono altre due emozioni negative che contribuiscono al job burnout.
Questi sentimenti sono particolarmente probabili quando le persone non hanno il controllo sul loro lavoro e quando l’ambiente di lavoro è incerto o minaccioso.
Per quanto riguarda la terza dimensione, vale a dire i problemi di adattamento tra la persona e il lavoro, accade che gli individui percepiscono lo squilibrio con il lavoro come una crisi personale, mentre in realtà è il posto di lavoro a presentare problemi. Questa dimensione è maggiormente riscontrabile in coloro che lavorano a contatto con il pubblico che fanno l’ulteriore esperienza dello stress di rispondere alle lamentele dei clienti scontenti. Il personale a contatto con il pubblico spesso manca delle risorse, del tempo, dell’energia necessari per stabilire un rapporto professionale con i clienti che sia reciprocamente accettabile cosicché il conflitto persiste, sommandosi alle altre esigenze del lavoro. Si crea pertanto il cosiddetto effetto a cascata, per cui la tensione scende come una cascata da livelli superiori ma si riversa sui singoli individui.
In questo caso nonostante sia l’individuo a fare esperienza di job burnout,  è la situazione lavorativa a costituirne la causa principale.
Come è stato detto in precedenza, il job burnout rappresenta il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità delle richieste rivoltegli dagli utenti, e risorse disponibili per rispondere e tali richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita dovuta alla convinzione di non poter far nulla per modificare la situazione, per eliminare l’incongruenza tra ciò che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di offrirgli[5] (Zani, Cicognani, 2000).
Ciò porta ad un esaurimento delle energie che può avere molteplici manifestazioni.
Possiamo rintracciare numerosi sintomi attraverso cui si manifesta il job burnout[6] che si possono raggruppare in sintomi fisici, psicologici, reazioni comportamentali e cambiamenti di atteggiamento.
Tra i sintomi fisici può portare a fatica, frequenti mal di testa, insonnia , disturbi gastrointestinali, uso di farmaci.
Possono emergere sintomi psicologici come senso di colpa, scarsa fiducia in sé, scarsa empatia, irritabilità, alterazioni dell’umore e negativismo.
Le reazioni comportamentali sul luogo di lavoro sono l’assenteismo, la tendenza ad evitare contatti telefonici, scarsa creatività e il ricorso a procedure standardizzate. Per quanto concerne l’ultima categoria di sintomi, possono manifestarsi cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti quali la spersonalizzazione nei rapporti, cinismo, distacco emotivo e indifferenza nei problemi dell’altro.
Tutte queste manifestazioni prese separatamente sono reazioni generali che si possono verificare in occasione di diverse situazioni stressanti (Shaufeli e Buunk, 1996).
 La specificità della sindrome del job burnout, oltre a riguardare la sfera lavorativa, risiede nella combinazione di reazioni generiche allo stress con specifici sintomi comportamentali e di modificazione degli atteggiamenti .
E’ proprio la rilevanza della dimensione interpersonale e in particolare il rapporto con l’utenza l’aspetto caratterizzante, che distingue il job burnout dal fenomeno dello stress lavorativo.
Rispetto allo stress si differenzia  perché si caratterizza per le dimensioni psicologiche ed emotive, e perché è una sindrome che presuppone un processo a lungo termine.
Infatti lo stress presenta uno specifico quadro psico-fisico e costituisce una momentanea reazione di disadattamento, può essere legato a diversi aspetti della vita lavorativa[7] (Borgogni, Consiglio 2005).
“Il job burnout è la sindrome di chi si esaurisce a tutto campo senza una precisa sintomatologia psicosomatica[8], ma in maniera sottile quasi impercettibile” (Rossati e Magro, 1999).
Per la Maslach (1982) i soggetti a più elevato rischio di job burnout sono quelli con una personalità fragile, ansiosa e remissiva nelle relazioni con gli altri, le persone che più facilmente tenderanno a cedere alle richieste dell’utente.
Risultano a rischio di job burnout le persone che esercitano una professione che implica un frequente ed intenso contatto con un cliente/utente (infermieri, assistenti sociali).
I lavoratori all’inizio della loro carriera sarebbero maggiormente esposti allo scontro tra aspettative idealistiche e realtà lavorativa, ma poiché il burnout non è una reazione immediata e richiede un certo tempo per svilupparsi, i soggetti più esposti sarebbero quelli con un’anzianità di posizione tra i due e i quattro anni (Maslach, 1982).
Questo dato risulta confermato da numerosi contributi che evidenziano una correlazione negativa tra job burnout ed età (Shaufeli e Enzmann, 1998).
D’altro canto la minore incidenza del burnout tra soggetti più anziani potrebbe essere causata dal fatto che i lavoratori colpiti dalla sindrome potrebbero nel frattempo aver abbandonato il lavoro.

Per spiegare la genesi del job burnout sono state proposte diverse teorie.
Secondo l’approccio individualistico, l’insorgenza e gli effetti del job burnout sono modulati da fattori individuali e processi intrapersonali.
Le persone rispondono in maniera diversa alle situazioni stressanti in rapporto a caratteristiche di personalità e a stili di vita acquisiti.
I soggetti che affrontano le difficoltà in maniera passiva e con atteggiamento difensivo sono più a rischio di sviluppare burnout, così come quelli nel cui tratto caratteriale predominano ansia, ostilità, depressione, vulnerabilità. Inoltre sono più a rischio anche le persone che non mostrano apertura e verso il cambiamento e che manifestano poco coinvolgimento nelle attività quotidiane e con scarso controllo sugli eventi. Anche le persone che lavorano molto e duramente perché hanno grosse aspettative nella loro professione sono maggiormente a rischio quando non vedono realizzare i propri progetti (Tomei, Tomao, 2004).
Come sottolineano Maslach e Jackson, l’operatore vulnerabile al burnout è piuttosto debole e remissivo  nei rapporti con gli altri, incerto nel distinguere i limiti tra il coinvolgimento personale e professionale, controlla con difficoltà i propri inpulsi ostili, può rivelarsi impaziente e intollerante, viene facilmente dagli ostacoli.
Inoltre può sviluppare un senso di impotenza acquisita (learned helplessness) conseguente al mancato raggiungimento di risultati, in situazioni che il soggetto non è in grado di controllare  (De Rijk et al.1998).
Alcuni autori chiamano in causa caratteristiche specifiche di personalità, quali l’estroversione e il nevroticismo (Parkers, 1986), l’ansia (Richardsen, Burke e Leiter, 1992), ma anche il pattern di comportamento di Tipo A (cioè individui con forte impegno competitivo, alto livello di aspirazione, impulsività, sentimenti di impazienza, fretta e mancanza di tempo).
Un'altra variabile presa in considerazione è la percezione di poter controllare direttamente gli eventi della vita (locus of control interno).
Infatti chi si sente attivo e responsabile di ciò che accade è maggiormente esposto al rischio di burnout rispetto a chi ha un controllo esterno, è cioè convinto che gli eventi e i risultati siano il frutto di forze al di fuori del proprio controllo.
Viene utilizzato anche il concetto di aspettative riferite alla vita professionale, riguardanti cioè il modo in cui il soggetto valuta cognitivamente e affettivamente il proprio inserimento sociale e professionale.
In tal caso viene presunto che elevate o irrealistiche aspettative di riuscita professionale nel lavoro con gli utenti costituiscano un fattore motivazionale di forte impegno professionale.
Se si verificano discrepanze fra tali aspettative e la realtà lavorativa concreta, sarebbe probabile la comparsa di reazioni di burnout.
Questi approcci sono tesi a rilevare la discrepanza tra aspettative e realtà quotidiana.
Esistono anche delle connessioni tra burnout e variabili demografiche, quali sesso, età, e anni di servizio (Zani e Cicognani, 2000).
Infatti varie ricerche hanno evidenziato che sesso femminile, età media e anzianità maggiore sono fattori che incidono sulle manifestazioni del fenomeno sebbene occorrano maggiori approfondimenti.
Questi approcci pongono un forte accento sull’individuo e sulla sua “predisposizione a bruciarsi”.
Come afferma Pines (1993) “In order to burn out, one first has to be on fire” (per andare in burnout, bisogna che una persona sia già in fiamme), testimoniando la centralità assegnata alle predisposizioni individuali, quali tratti, caratteristiche e vulnerabilità psicologiche nell’insorgenza del fenomeno.
In questa prospettiva che enfatizza il ruolo dell’individuo e dei processi intraindividuali si possono distinguere tre diversi approcci allo studio del job burnout: approcci psicodinamici, approcci cognitivi e approcci legati allo stress lavorativo (Borgogni, Consiglio, 2005).
Gli approcci psicodinamici fanno riferimento a dimensioni teoriche quali super-io, ideali e ideale dell’io.
 Tra gli autori di questo raggruppamento vi è Freudenberger (1975), il quale sostiene che il burnout colpisca i cosiddetti super-achiever, le persone con un commitment elevato che presentano un’immagine idealizzata di se stessi.
Secondo quest’ottica, chi presenta il job burnout utilizza tutte le sue energie per mantenere, anche di fronte a fallimenti ed errori, tale percezione di sé idealistica, attraverso strategie di difesa dalla realtà, come il distacco ed il disimpegno.
Fisher (1983) considera la persona colpita da job burnout affetta da un disturbo narcisistico di personalità, concettualizzandolo  intorno al senso di autostima dell’operatore fondato su un’illusione di grandezza.
Gli approcci cognitivi sono centrati su motivazioni e aspettative frustrate dalla realtà lavorativa.
 Secondo Edelwich e Brodsky (1980) il job burnout ha origine dalla perdita dei propri ideali, e deriva da un processo di disillusione che si sviluppa a partire dal confronto con la realtà. Nei contesti lavorativi socio-sanitari tale confronto presenta varie fonti di frustrazione (scarso riconoscimento della professione da parte dell’utenza, dell’organizzazione e della società, basso stipendio, obiettivi non definiti).
Si parla di fasi di disillusione, perdita progressiva di idealismo, di energia e di motivazioni, sperimentata dalle persone come risultato delle condizioni nel loro lavoro.
In linea con un approccio cognitivo-comportamentale, Meier parla di aspettative, distinguendone tra: aspettative di rinforzo, di risultato e di efficacia, che vengono deluse non trovando corrispondenza con la realtà lavorativa quotidiana.
Pines (1993) sostiene che l’individuo predisposto al job burnout è altamente motivato e carico di obiettivi e aspettative personali e professionali nei confronti dell’attività lavorativa  e, trovandosi poi in un ambiente di lavoro stressante, sperimenta un senso di fallimento che lo conduce alla sindrome.
Gli approcci appartenenti alla tradizione degli studi sullo stress lavorativo, sono centrati sullo squilibrio tra richieste energetiche e risorse disponibili.
Tra questi vi è la “teoria della conservazione delle risorse” ( Hobfoll, 1989) che ipotizza che il job burnout intervenga nel momento in cui l’individuo perde, o si rende conto di non possedere certe risorse che gli sono necessarie per affrontare le richieste esterne. Ambiguità di ruolo, conflitti, carico di lavoro ed eventi stressanti rappresentano alcune delle richieste lavorative più impegnative.
Gli approcci di tipo interpersonale considerano le relazioni di squilibrio tra caregiver  e utente e le dinamiche delle relazioni sociali nel contesto lavorativo.
Viene sottolineata l’importanza di includere le relazioni, oltre che con gli utenti diretti, anche con gli altri presenti nel luogo di lavoro, quali i colleghi, i superiori e i familiari degli utenti.
Secondo la prospettiva di Schaufeli e Buunk il job burnout è considerato come risultato del processo di confronto sociale: gli operatori delle helping profession tendono a confrontare le loro reazioni con quelle dei colleghi, come modalità di autovalutazione, per verificarne l’appropriatezza. E’ rilevante la direzione del confronto con i colleghi.
I confronti verso l’alto con chi è percepito più competente sono associati ad un minor esaurimento emotivo. I colleghi più competenti funzionerebbero come modelli, in grado di fornire informazioni su come affrontare efficacemente i problemi di lavoro ( Schaufeli e Buunk 1996).
Nel caso del job burnout si ha la percezione di una mancanza di reciprocità nei soggetti coinvolti nella relazione d’aiuto, caregiver e recipient.
Infatti l’operatore non riceve riconoscimenti da parte del malato, il quale a sua volta , non progredendo, non riesce ad apprezzare gli sforzi dell’operatore.
Questa mancanza di reciprocità oltre a provocare malessere nei soggetti coinvolti, li spinge a tentare di ripristinare un equilibrio nella relazione o a crearne uno nuovo. L’operatore infine consumando tutte le risorse disponibili ma senza risultato tende a dare sempre meno nel lavoro.
 Vi è un contagio emozionale nel contesto lavorativo in cui individui a rischio, percependo i sintomi espressivi del job burnout nei colleghi, tendono ad imitarli attraverso un processo inconscio di “risonanza emotiva”.
Il terzo approccio, quello organizzativo, enfatizza la rilevanza del contesto organizzativo nell’origine del job burnout, considerando l’impatto di una serie di variabili strutturali, culturali e di ruolo .
È emerso che la qualità delle organizzazioni e dell’ambiente di lavoro  può incidere sullo stress e sulla salute dei lavoratori. Alcune caratteristiche del lavoro quali carico di lavoro esagerato, scadenze pressanti, conflitti e ambiguità di ruolo, possono essere correlati all’insorgenza di burnout. La violazione delle aspettative riguardo la distribuzione degli spazi, la presenza di gerarchie, i regolamenti, possono indurre ad insicurezza sulle opportunità, sugli impegni e sulle incertezze economiche.
La variabile organizzativa più frequentemente presa in considerazione negli studi sul job burnout è il carico di lavoro, ossia il rapporto tra quantità di lavoro da svolgere, tempo ed energia a disposizione[9] (Borgogni e Consiglio, 2005).
A causa dei mutamenti organizzativi descritti precedentemente il lavoro è divenuto più intenso, richiede più tempo ed è più complesso e la relazione tra l’individuo e l’organizzazione non è più calata in un contesto organizzativo caratterizzato da stabilità, sicurezza e certezza. Per questi motivi le richieste e le pressioni da parte dell’organizzazione nei confronti degli individui sono aumentate, poiché queste devono adeguarsi e sostenere il cambiamento. Questa aumentata incertezza dei contesti organizzativi ha iniziato a generare un elevato livello di ansia nelle persone.
Bisogna tener presente che i tre approcci non si escludono  a vicenda, poiché il job burnout è attualmente considerato un fattore multidimensionale, in cui interagiscono fattori socioambientali e variabili individuali[10] (Zani e Pietrantoni, 2000).
Infatti un problema che si presenta in uno specifico contesto organizzativo e che riguarda la relazione tra la persona e il proprio lavoro, non dipende né da fattori esclusivamente individuali, né unicamente da caratteristiche connesse alla relazione con l’utente e al tipo di lavoro svolto.
In accordo con il modello integrato di Shaufeli e Enzmann (1998) il job burnout nasce e si sviluppa attraverso l’effetto combinato di caratteristiche individuali, fattori interpersonali, ambientali e sociali che interagiscono tra loro (Schaufeli e Enzmann 1998). Sono rilevanti le motivazioni e le aspettative della persona circa l’attività lavorativa, il tipo di ambiente e la compatibilità tra l’organizzazione e le caratteristiche individuali. Al tempo stesso è centrale la capacità della persona di affrontare le situazioni frustranti, di reagire positivamente alle difficoltà, di contribuire al cambiamento proprio e dell’ambiente in cui si trova ad operare.
Un approccio multidimensionale allo studio del fenomeno è quello della Maslach la quale ipotizza come causa primaria del job burnout il sovraccarico emozionale a cui l’operatore sociale si trova esposto.
Secondo la studiosa gli utenti in condizione di bisogno e sofferenza attivano una serie di richieste emozionalmente coinvolgenti e difficili da affrontare. In particolare l’ipotesi è che l’esaurimento emotivo sia la prima e diretta conseguenza delle eccessive richieste interpersonali quantitative e qualitative.
Maslach individua 6 fonti di job burnout nelle discrepanze tra persone e lavoro: il sovraccarico di lavoro, la mancanza di controllo, la gratificazione insufficiente, la diminuzione del senso di appartenenza a una comunità, l’assenza di equità, la presenza di valori contrastanti.
Il sovraccarico di lavoro si presenta quando le organizzazioni, nella loro lotta per aumentare la produttività, pretendono dalle persone più di quanto esse riescano a sostenere.
L’impegno lavorativo richiesto è tipicamente più intenso, richiede più tempo ed è più complesso. Tutto ciò porta a un esaurimento delle energie del lavoratore. Le persone così rinunciano al proprio tempo e agli interessi personali. A proposito della crescente complessità del lavoro sta prendendo piede la tendenza di far assumere alle persone più ruoli simultaneamente (multitasking).
 Le persone che vivono lo stato di esaurimento tipico del job burnout presentano problemi cronici di salute: sonnolenza, tensione, mal di testa, ipertensione, ulcera, e maggiore predisposizione a raffreddori e influenze.  Per quanto riguarda la seconda causa (mancanza di controllo) del job burnout, la Maslach ritiene importante che la persona abbia un controllo sugli aspetti importanti del lavoro, sul perché e sul come delle proprie attività, che si tratti di un controllo personale o condiviso. La perdita di questa sensazione rende le persone più soggette all’esaurimento, al cinismo e all’inefficienza. La gratificazione insufficiente è un fattore che contribuisce in modo rilevante all’esperienza del job burnout. I cambiamenti organizzativi descritti hanno portato alla perdita del compenso intrinseco ottenibile svolgendo un lavoro gratificante con colleghi stimati, e che accresca la competenza professionale. Anche la probabilità di un compenso materiale è diminuita. La  remunerazione  è insufficienze rispetto alla mole di lavoro e ci sono meno opportunità per l’avanzamento di carriera. Una terza forma di remunerazione materiale che si sta perdendo è la sicurezza del lavoro. La perdita simultanea dei fattori di gratificazione sia estrinseci che intrinseci riduce la capacità di un lavoro di essere attraente. Secondo la Maslach diminuisce il senso di appartenenza a una comunità poiché il lavoro diventa più pesante, meno piacevole e meno remunerativo, le persone condividono meno tempo con i colleghi, e il loro ambiente di lavoro perde la dimensione della comunità. L’ultima fonte di job burnout è il conflitto di valori tra quelli della persona e quelli dell’organizzazione. I valori influenzano ogni aspetto del rapporto che si ha con il lavoro. L’attuale crisi è per molti aspetti un grande conflitto di valori. Un sistema di valori basato sulla sopravvivenza-profitto a breve termine è contrario ai valori che i dipendenti più devoti hanno in relazione al proprio lavoro. Quello che le persone reputano particolarmente grave è che spesso l’organizzazione mette in evidenza la dedizione al servizio o la produzione ottimale mentre prende provvedimenti che vanno a scapito della qualità del lavoro (Maslach e Leiter, 2003).
Chernis (1980), ha proposto una descrizione del job burnout come processo, articolato in tappe.
Per questo autore, si possono distinguere tre fasi: la prima comprende  un disequilibrio tra risorse e richieste (stress). La seconda è la tensione emotiva, la fatica, l’esaurimento immediato, a breve termine (strain). La terza consiste in cambiamenti negli atteggiamenti e nel comportamento, come la tendenza a trattare i pazienti in modo meccanico e distaccato, o con una preoccupazione cinica circa la gratificazione dei propri bisogni (coping difensivo).
Si possono individuare diversi tipi di effetti e conseguenze del job burnout: a livello individuale, a livello di atteggiamenti verso il lavoro, e a livello organizzativo.
A livello individuale sono stati riscontrati disturbi psico-somatici (Shaufeli e Van Dierendonck, 1993), disturbi depressivi (Leiter r Durup, 1994; Dion e Tessier, 1994), nonché abuso di sostanze (Greenglass e Burke, 1990).
Lo sviluppo della sindrome può stimolare anche comportamenti che costituiscono un rischio per la salute.
A livello di atteggiamenti verso il lavoro emergono un abbassamento della soddisfazione lavorativa e dell’organizational commitment ed un aumento dell’intenzione di lasciare il posto di lavoro (Lee e Ashforth, 1996).
Possono essere comportamenti che testimoniano un forte disimpegno sul lavoro[11], eventi autodistruttivi[12], comportamenti eterodistruttivi[13].
I sintomi associati al job burnout per quanto riguarda questi primi due livelli possono essere cognitivo-emozionali, comportamentali e fisici.
I sintomi cognitivo-emozionali sono quelli principali e investono sia la sfera cognitiva, sia quella emotiva ( Maslach 1982)[14]. I sintomi possono essere raggruppati in quattro categorie: collasso delle energie psichiche, nella quale rientrano molti sintomi tipici degli stati ansioso-depressivi. I principali sintomi sono: alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno; apatia; demoralizzazione; difficoltà di concentrazione; disagio; disperazione; incubi notturni; irritabilità; preoccupazioni o paure eccessive o immotivate; sensazione di inadeguatezza; sensi di colpa; senso di frustrazione o di fallimento. Collasso della motivazione: in questa categoria rientrano tutte le disfunzioni che portano alla depersonalizzazione dell'utente e quindi ad un progressivo scadimento della qualità professionale. I sintomi sono: distacco emotivo (perdita della capacità empatica); rigidità nell'imporre o applicare norme e regole; cinismo, disinteresse oppure ostilità o rifiuto verso gli utenti o verso i colleghi; pessimismo.
Caduta dell'autostima: l'operatore non si sente realizzato sul lavoro e comincia a svalutarsi sia sul piano professionale, sia - successivamente - su quello personale. Nonostante si sforzi, non riesce a frenare questo crollo della fiducia nelle proprie capacità e risorse; i nuovi impegni gli sembrano insostenibili; ha la sensazione di non essere "all'altezza" dei problemi nel lavoro e nel privato.
Perdita di controllo: l'operatore non riesce più a controllare lo spazio o l'importanza del lavoro nella propria vita. Ha la sensazione che il lavoro lo "invada"; non riesce a "staccare" mentalmente; il pensiero degli utenti o i problemi con i colleghi gli creano sempre più malessere, anche oltre l'orario di lavoro.
Tra i sintomi comportamentali ( Cherniss, 1983; Lee e Ashforth, 1996; Schaufeli e Enzmann, 1998) sono compresi: assenteismo, fuga dalle relazioni[15], ritiro dalla realtà lavorativa[16], difficoltà a sherzare sul lavoro, ricorso a misure di controllo o allontanamento nei confronti degli utenti, perdita di autocontrollo, tabagismo e assunzione di sostanze psicoattive ( alcool, psicofarmaci, stupefacenti). (Ogus, Greenglass e Burke,1990).
Inoltre la sindrome del burnout può provocare o aggravare alcuni disturbi psicosomatici (Schaufeli e Van Dierendonck,1993). Tra questi i più frequenti sono le disfunzioni gastrointestinali (gastrite, ulcera, colite, stitichezza, diarrea); le disfunzioni a carico del SNC (astenia, cefalea, emicrania); disfunzioni sessuali (impotenza, frigidità, calo del desiderio); malattie della pelle (dermatite, eczema, acne); allergie e asma; insonnia e altri disturbi del sonno (Akerstedt, 2001); disturbi dell'appetito.
A livello organizzativo le conseguenze più frequenti sono l’assenteismo, il turnover, il calo della performance e della qualità del servizio ai clienti. (Shaufeli e Enzmann, 1998).

a cura del Dott. Andrea Morbidoni



[2] A tale proposito vedi Schaufeli  e Enzmann, 1998; Maslach e Leiter, 2000.
[3] Il termine burnout proposto negli anni ’70 da Freudenberger [1974] viene poi ripreso e approfondito da Maslach [1977;1982] ed ebbe subito una vasta eco tra i professionisti.
[4] Christina Maslach e Michael P. Leiter, Job burnout e organizzazione, 2003.
[5] B. Zani, E. Cicognani “Psicologia della Salute”,  2000.
[6] La rassegna di Shaufeli e Enzmann (1998) ne individua 132.
[7] Lo stress fa riferimento ad un generico disadattamento, mentre il burnout comprende necessariamente un aspetto legato alla dimensione interpersonale.
[8] Anche se alla lunga può dare origine a manifestazioni psicosomatiche.
[9] Come affermano Cordes e Dougherty (1993) per gli operatori socio-sanitari si parla di caseload, che rappresenta il numero di utenti per operatore in un’unità di tempo. Più è elevato il caseload minore è il tempo a disposizione per ogni paziente, più breve l’interazione con ognuno di essi e maggiore è lo stress che l’operatore e quindi il rischio di job burnout.
[10] Zani e Pietrantoni, “Job burnout e operatori sanitari:cause e conseguenze”, 2000. 

[11]Aumenta l’assenteismo, il soggetto trascorre gran parte del suo tempo al telefono, cerca continuamente scuse per uscire o svolgere attività che non richiedano interazioni con utenti e colleghi, trova difficoltà a scherzare sul lavoro.
[12] Il burnout può spingere l’operatore ad un forte tabagismo e/o all’assunzione di alcool, psicofarmaci, stupefacenti; può verificarsi inoltre un aumento della propensione agli incidenti
[13] Il soggetto è propenso a compiere atti violenti verso gli utenti come sedazione, allontanamento fisico, espulsione, aggressività verbale, manifestazioni di indifferenza, ma anche a manifestare reazioni emotive impulsive e violente verso i colleghi.
[14] Christina Maslach descrive tre gruppi di sintomi: esaurimento emotivo, depersonalizzazione dell'utente, ridotta realizzazione professionale. Ai sintomi inclusi in queste tre categorie, F. Folgheraiter aggiunge quelli descrivibili globalmente come perdita di controllo.
[15] trascorrere più tempo del necessario al telefono, cercare scuse per uscire o svolgere attività che non richiedano interazioni con utenti e colleghi
[16] presenziare alle riunioni senza intervenire, senza alcuna partecipazione emotiva, e solo per lo stretto necessario

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